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Chiesa San Domenico Acireale
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Il Fondo Edifici Di Culto (F.E.C.) È Un Organo Dello Stato Con Personalità Giuridica, Il Cui Legale Rappresentante È Il Ministro Dell'interno, Che È Coadiuvato Da Un Consiglio Di Amministrazione.

Il Fondo È Amministrato Dal Ministero Dell'interno Per Mezzo Della Direzione Centrale Per L'amministrazione Del Fondo Edifici Di Culto E Dalle Prefetture In Sede Periferica. La Prefettura, Quindi, Cura Tutti Gli Aspetti Tecnico-Amministrativo-Finanziari Connessi Con La Gestione Dei Beni Del F.E.C. Presenti In Provincia.

Il Patrimonio Del Fondo Edifici Di Culto È Costituito Da Beni Di Varia Natura, Ma Principalmente Da Edifici Sacri.

Il Compito Del Fondo È Di Conservare Le Chiese Aperte Al Culto Pubblico, Affidandole In Uso All'autorità Religiosa, E Di Assicurare Il Restauro E La Conservazione Degli Edifici Stessi E Delle Opere D'arte In Essi Custodite.

Tali Edifici, Circa 700, Sono Dislocati Su Tutto Il Territorio Nazionale E Tra Essi Figurano Abbazie, Basiliche Monumentali E Chiese Più O Meno Famose, Tutte Comunque Pregevoli Testimonianze Delle Esperienze Culturali E Artistiche Succedutesi Nel Corso Dei Secoli In Italia.
Il Patrimonio Proviene Dagli Ordini Religiosi Disciolti Dalla Apposita Legislazione Di Fine '800 (Leggi C.D. "Eversive").

Collaborare Per Valorizzare E Tutelare: L'attività Sinergica Tra Soprintendenza Beni Culturali Ed Identità Siciliana Di Catania E L'ufficio Territoriale Del Governo - Patrimonio FEC

La Legge N. 3036 Del 7 Luglio 1866 Negò Il Riconoscimento E Di Conseguenza La Capacità Patrimoniale A Tutti Gli Ordini, Le Corporazioni, E Le Congregazioni Religiose Regolari, Ai Conservatori Ed I Ritiri Che Comportassero Vita In Comune Ed Avessero Carattere Ecclesiastico. I Beni Di Proprietà Di Tali Enti Soppressi Furono Incamerati Dal Demanio Statale, E Contemporaneamente Venne Sancito L'obbligo Di Iscrizione Nel Libro Del Debito Pubblico Di Una Rendita Del 5% A Favore Del Fondo Per Il Culto. Venne Inoltre Sancita L'incapacità Per Ogni Ente Morale Ecclesiastico Di Possedere Immobili, Fatte Salve Le Parrocchie.

La Legge N. 3848 Del 15 Agosto 1867 Previde La Soppressione Di Tutti Gli Enti Secolari Ritenuti Superflui Dallo Stato Per La Vita Religiosa Del Paese. I Fabbricati Conventuali Incamerati Dallo Stato Vennero Poi Concessi Ai Comuni E Alle Province (Con La Legge Del 1866, art. 20), Previa Richiesta Di Utilizzo Per Pubblica Utilità Entro Il Termine Di Un Anno Dalla Presa Di Possesso.

Le Soprintendenze, Preposte Alla Tutela Ed Alla Conservazione Dei Beni Culturali, Svolgono Un Ruolo Importante Per Il Patrimonio Dei Fondi Edifici Culto Su Tutto Il Territorio Nazionale. Da Pochi Anni Grazie Alla Sensibilità Ed Alla Disponibilità Dei Tecnici Impegnati Nella Gestione Dell'immenso Patrimonio Del Fondo Fec Presente Nella Provincia Di Catania È Stato Possibile Attuare Un Piano Di Gestione Dei Beni Storico Artisti Ci Ed Architettonici E Porre Le Basi Per Un Percorso Di Valorizzazione E Tutela.

Grazie Anche Alla Collaborazione Degli Uffici Ecclesiastici Dei Beni Culturali Delle Curie Di Acireale, Caltagirone, Catania È Stato Possibile Conoscere, Monitorare E Concedere In Uso Un Patrimonio Ricchissimo Che, Nonostante Le Poche Disponibilità Economiche A Disposizione, Si Intende Restaurare E Valorizzare.


CHIESA DI S. DOMENICO ACIREALE
(testo di Alfonso Sciacca tratto dal libro "il racconto dell'arte")
foto tratte dal libro "il racconto dell'arte" di Angelo Pappalardo
vietata la duplicazione

È una delle due chiese dei padri Domenicani: lʼaltra, quella
di san Rocco, è annessa al più recente convento di corso
Umberto; questa di piazza san Domenico sorgeva accanto
al vecchio convento, fondato intorno al 1640, subito dopo il
loro arrivo in Acireale. Essa si affaccia su una piazza, importante
crocevia di strade che qui convergono dal centro urbano
per dipartirsi in varie direzioni. La posizione di una chiesa
doveva, infatti, soddisfare requisiti strategici, a presidio
di un articolato territorio di strade e quartieri. Sebbene non
proprio vicina al convento di san Rocco, i padri Domenicani
vi esercitarono il culto per pareccchio tempo e con molto
seguito. Essi sono stati un preciso punto di riferimento nella
vita religiosa e culturale di Acireale. I Domenicani avevano
bisogno di una decorazione che attraverso le immagini
dellʼarte, e tanto eloquentemente quanto le parole delle loro
prediche, parlasse del fondatore, dei loro numerosi santi e
della presenza del proprio ordine nel mondo. Essi incoraggiarono
pertanto forme dʼarte ispirate al dinamismo barocco,
di chiara derivazione ispanica (di cui erano a conoscenza
essendo penetrati, fino a dominarla, in quella cultura).
La facciata è moderna e nel suo insieme, sobrio ed elegante,
reca i segni iconografici cari allʼordine domenicano.
Lʼinterno è a tre navate. Lʼaltare maggiore è spoglio di
decorazioni; ma i due altari laterali sono molto ricchi. Sull
ʼaltare di sinistra, ai lati di un crocifisso ligneo (raffinato
prodotto dellʼartigianato locale), è affrescato un pregevole
Compianto ai piedi della Croce. Lʼintonazione complessiva
dellʼaffresco (in genere attribuito ad Alessandro Vasta)
è segnata da una struttura narrativa a tratti connotata da
teatrale gestualità. Il pittore ha memoria delle precedenti
opere del medesimo soggetto (specie di epoca barocca) e,
per quanto desideroso di attenuarne lʼintensità emotiva, affida
al cromatismo e alle linee di un pregevole disegno il
compito di evocare commoventi suggestioni patetiche.
Sullʼaltare di destra è collocata la tela La Madonna del Rosario,
san Domenico, santa Caterina ed altri santi domenicani
di Matteo Ragonisi (1660-1737). Essa è un pendant
dellʼIncoronazione della Vergine e Santi dello stesso pittore,
presso la basilica di san Sebastiano.
Lʼobiettivo era quello di suscitare lʼimpatto emotivo dello
spettacolo: e lo spettacolo, in questa tela, è offerto dalla folla
di santi domenicani così fitta da formare autentici grappoli
di fede rigogliosa attorno alla Madonna del Rosario. Il pittore,
essendo stato implicitamente o direttamente allievo di
Giacinto Platania (comʼè lecito supporre, pur in mancanza di
precise fonti dʼarchivio), ha memoria delle sacre conversazioni:
ma il loro impianto non convince più. Quelle Madonne
gli appaiono fredde nel disegno e nellʼespressione perché
lontane dal suo mondo e la loro grazia troppo aristocratica
per poter parlare al popolo. La cultura di riferimento è assai
diversa. Matteo Ragonisi si muove allʼinterno di una società
che ha radicalmente modificato il suo modo di sentire la fede
religiosa rispetto ai modelli del Catalano e dei Platania. Egli
ha bisogno di immagini che possano veicolare una sensibilità
diversa attorno a fili e a nuclei tematici nei quali è venuta a
condensarsi la memoria sociale. La sua arte, in quanto innovativa,
è fortemente sperimentale. Ed in ciò consiste il suo limite ed insieme il suo pregio. Ragonisi riduce alquanto la
distanza tra la Madonna ed i santi, così nel perimetro della
tela come nella gerarchia celeste, mosso da una sorta di paratattica
ripartizione dei ruoli, e non più utilizza gli angeli per
marcare, con i medaglioni del santo Rosario, una linea curva
di separazione tra lo spazio aulico riservato alla Madonna
e quello dei santi. La fede popolare si sostiene sul culto dei
santi ai quali la Madonna concede di starle così vicino da
poggiare essa stessa con confidenza la mano sulla spalla di
san Domenico, mentre santa Caterina, dallʼaltro lato, bacia
teneramente il piede del Bambino. Ed in questo gesto cʼè
tutta una fiduciosa cordialità di atteggiamenti e di rapporti.
Si tratta di gesti che, sebbene codificati, trasmettono pathos
e rimandano ad un modo nuovo di rappresentare anche la
società degli uomini. Come sostiene A. Warburg lʼimmagine
è il luogo in cui più direttamente precipita e si condensa lʼimpressione
e la memoria degli eventi. Nelle due Stragi degli
Innocenti (sia quella della Cattedrale che quella del Suffragio),
nellʼIncoronazione della Vergine (in san Sebastiano)
ed in questa Madonna del Rosario (diversamente da quanto
avviene nella Madonna del Rosario del medesimo pittore
nella chiesa di santa Lucia in Acicatena) il Ragonisi avverte
il bisogno di utilizzare lʼimmagine della coralità (una coralità
tuttʼaltro che geometrica, tuttʼaltro che ordinata, perché
scomposta e perfino centrifuga) per evocare la configurazione
sociale determinatasi dopo il terremoto del 1693, allorché
la catastrofe aveva fatto sentire i suoi effetti anche nella struttura della società acese, rompendo gli assetti e creando nuovi
equilibri fra i ceti. Le gerarchie sociali si erano spezzate,
mentre lʼevento sismico aveva imposto la solidarietà tra gli
abitanti. Allʼagricoltura si era affiancato il commercio, che
aveva modificato anche la mentalità dei cittadini. La storia
dellʼarte è sostanzialmente “storia delle immagini”: quella
della Madonna del Rosario è destinata a profonde modificazioni,
come il lettore potrà facilmente notare confrontando
questa Madonna del Ragonisi con quella del Leonardi Vigo
(circa due secoli dopo) nella chiesa dellʼImmacolata a Guardia,
dove altri eventi e altre storie si condensano per evocare
nello stile di un dipinto una diversa struttura della società.
Lʼimpegno di fondo del pittore e dei suoi committenti è descrittivo
perché il pittore intende significare quanto sia stato
lʼordine religioso di san Domenico fecondo di santità nel
suo impegno teologico e missionario e nella testimonianza
di fede vissuta fino al martirio. Ai piedi della Madonna
san Domenico riceve il Rosario, e santa Caterina coronata
di spine, e poi nel registro superiore di destra santʼAgnese di
Montepulciano (presso la cui tomba santa Caterina amava
recarsi) e più in basso san Tommaso, sole di divina sapienza,
e Benedetto XI, fino a giungere in primo piano ai santi
Pio V, il papa della vittoria di Lepanto, ed Antonio, vescovo
di Firenze. Nel registro inferiore di sinistra san Ludovico
Bertrand, con in mano un archibugio che si trasforma in crocifisso,
testimonia il significato della vocazione missionaria
dellʼordine domenicano (questo santo, con i medesimi simboli iconografici, è presente nella volta di una delle navate
laterali della chiesa di santa Caterina a Pedara, affrescata da
Giovanni Lo Coco); più al centro santa Rosa alla quale un
angelo offre un mazzo di rose: dietro, san Pietro martire con
la palma. Ancora più a sinistra san Giacinto di Polonia, con
in mano lʼostensorio e nellʼaltra la statua della Madonna e
del Bambino. La tradizione vuole che questo santo, mentre
si affrettava a mettere in salvo lʼostensorio sottraendolo alla
furia dei Tartari sul punto di devastare la sua chiesa, sentì la
voce della Madonna che lo invitava a tornare indietro per recuperare
anche la sua statua. San Giacinto ubbidì volentieri:
la statua, per quanto marmorea e pesante, acquistò prodigiosa
leggerezza e guidò il santo verso la salvezza. Al centro
delle varie diagonali che intessono la segreta geometria della
tela troviamo un dolcissimo angelo in atto di guardare il
santo fondatore mentre gli porge i candidi gigli della purità
ed accarezza un docile cane tra i cui denti il pittore ha avuto
cura di disegnare le fervide candele della fede cristiana.
Lʼimpatto spettacolare ed emotivo, prodotto dallʼattento bilanciamento
tra una religiosità appassionata e popolare ed
una percezione sensuale del colore (Leda Vasta), è affidato
anche agli effetti della policromia, giocata sui toni prevalenti
del bianco e del nero (i colori dellʼabito domenicano) in
una varietà di gradazioni interrotta dal rosso e dallʼazzurro.
Alle pareti della chiesa, due per lato, Alessandro Vasta affrescò
quattro ampi pannelli con scene tratte dalla vita di esemplari
santi domenicani. Nella parete di destra troviamo Santa
Caterina parla ai dottori. È il noto episodio della vita della
santa, narrato dai suoi biografi. Più avanti ancora lʼepisodio
di San Raimondo Penjafort, confessore del re Giacomo
dʼAragona. Sul lato sinistro Alessandro Vasta affrescò altri
due episodi della storia dellʼordine domenicano: uno di essi
raffigura San Tommaso compone le sue opere ispirato dalla
Madonna, con la solita rappresentazione a gruppi, cara ai
Vasta. San Tommaso attende al suo lavoro su un libro aperto,
mentre altri sono disordinatamente sparsi su un ampio tavolo.
Egli reca sul petto un luminoso sole, simbolo della sua
illimitata sapienza. Dinanzi a lui maternamente la Madonna
ne sorregge lʼispirazione, mentre due angeli adattano al suo
fianco una cintura di castità, tipico simbolo iconografico a
memoria della vittoria sulle tentazioni della carne.
Nella parete sinistra della chiesa troviamo la tela nella quale
Giacinto Platania rappresenta la Pentecoste: un tema assai
ricorrente nella pittura del Seicento. Da un cielo misteriosamente oscuro calano sul capo degli Apostoli rosse lingue
di fuoco; mentre su Maria scende una nuvola di luce e ne
trasfigura il volto rendendola creatura celeste. Accanto, Giovanni
e Pietro: il primo giovane ed estatico nellʼespressione
ingenua e sognante, lʼaltro dalla barba bianca e con il volto
segnato dallʼesperienza. Lo studiato cromatismo non è certo
una sorpresa per chi conosce i mezzi espressivi del Platania:
qui, tuttavia, le prevalenti tonalità del giallo e del nero si
fondono armoniosamente, divenendo supporto concreto e
palpabile della narrazione medesima. Lʼaltra tela di Giacinto
Platania è La Madonna, il Bambino e Santa Caterina.
Ancora due tele decorano la chiesa: la prima dedicata al
fondatore dellʼordine, San Domenico e lʼaltra a Santa Caterina deʼ Ricci, la suora domenicana di Prato, canonizzata
da Benedetto XIV nel 1746. La data della canonizzazione
ne assegna la composizione alla seconda metà del Settecento.
La sua cifra stilistica ricorda da vicino quella di Michele
Vecchio, pittore attivo in questo periodo, al quale non dispiaceva
impegnarsi in opere piuttosto limitate nelle dimensioni,
come questa Caterina deʼ Ricci.
Più complessa e articolata lʼimpaginazione dellʼaltra tela
dove è rappresentato San Domenico, il padre fondatore dell
ʼordine. I segni iconografici sono la stella al di sopra del capo
a ricordo della luce che secondo la tradizione irradiava dalla
sua fronte (secondo unʼaltra tradizione, invece, la madrina
di Domenico vide una stella posarsi sul suo capo nel momento
del battesimo); il rosario intrecciato al polso destro; il
libro (del Vangelo) nella mano sinistra sormontata dal giglio
della castità. E, più in basso, un cane con una torcia accesa
nella bocca, a significare la fedeltà sempre viva a Cristo e
alla sua chiesa. Dietro san Domenico è visibile infatti una
chiesa a ricordo della visione del papa Innocenzo III. Questi
infatti sognò che la basilica di san Giovanni in Laterano
(simbolo comʼè ovvio di tutta la cristianità) vacillava e che
san Domenico la sorreggeva con le sue mani. Lʼattribuzione
a Giacinto Platania, sebbene sostenuta dal Raciti Romeo,
non è verosimile. La tela, invece, rimanda alla paternità del
Ragonisi: basterà osservare gli angeli nel registro superiore
e il cane con la torcia (identico a quello della Madonna del
Rosario) per riscontrarvi la mano di questo pittore.

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